Di Martina Bontognali – Volontaria medico all‘Ospedale pediatrico La Mascota di Managua
Sin dall’infanzia sono stata avvicinata al mondo latinoamericano, penso ai racconti entusiasti del papà che ad inizio carriera aveva trascorso 2 anni in Perù lavorando per la cooperazione tecnica Svizzera, ai dischi degli Intillimani e di Joan Baez ascoltati a ripetizione durante i lunghi viaggi in automobile e alle colorate e saporite feste di AMCA al Castello alle quali i miei genitori mi portavano da bambina. Da quando ho iniziato a studiare medicina è maturato in me il desiderio di partire per il Nicaragua e partecipare attivamente ai progetti della nostra ONG. Desiderio che finalmente si è potuto concretizzare.
È fine novembre quando lascio l’Engadina, già imbiancata dalle prime nevicate, dopo due splendidi anni che mi hanno permesso di costruire delle buone basi di Medicina Interna e di maturare professionalmente. Il tempo di traslocare e preparare una valigia e… partita! Managua Managua!
Una città che al primo impatto mi sembrava difficile farsi piacere, un po’ perché abituata alla realtà tranquilla e famigliare delle nostre montagne, un po’ per tutte le raccomandazioni e le varie messe in guardia, giuste o sbagliate, riguardanti l’elevato tasso di criminalità. Il sentimento dominante durante i primi giorni era quello di “dove sono finita?”. Tutte le strade si assomigliavano, tutte trafficate, rumorose e sporche allo stesso modo. Per una buona settimana non mi azzardavo nemmeno ad uscire all’esquina[1] per acquistare dell’acqua se non accompagnata.
Come in tutto ci sono solo voluti un po’ di pazienza e qualche inconveniente di percorso per acquisire sempre più confidenza con la nuova realtà. La prima volta che sono salita su un Autobus, non riconoscendo la fermata alla quale dovevo scendere sono arrivata fino al capolinea situato in un barrio[2] povero conosciuto soprattutto per la sua delinquenza. Mi sembra ancora di sentire la voce dell’autista che mi dice “no salga aqui muchacha, que me la van a matar”.[3]
Le prime settimane le ho dedicate perlopiù al conoscere ed integrarmi nella cultura locale così come a rinfrescare il mio spagnolo maccheronico aiutata dalla splendida famiglia che mi accoglieva in città. Passati Natale e Capodanno, era ora di iniziare a lavorare.
“Voy para La Mascota…l’hospital de niños”.[4] Casa mia era situata esattamente dall’altra parte della città, potevo quindi scegliere se viaggiare in autobus o prendere un taxi. Vista l’inaffidabilità dei primi mi trovavo spesso a dover optare per il secondo. Opzione molto più rapida visto che le strade alle sei del mattino già iniziavano a riempirsi a dismisura.
In ospedale mi sono da subito trovata in un ambiente estremamente accogliente. Sia gli altri medici, sia il team infermieristico erano sempre pronti ad aiutarmi. Una caratteristica ben presente nella popolazione nicaraguense, forse la più cordiale e alegre[5] che abbia mai avuto occasione di conoscere.
Abituata a lavorare con tutte le comodità degli ospedali svizzeri mi sono dovuta adattare ai nuovi mezzi (o per meglio dire, alla mancanza di alcuni mezzi); penso in modo particolare all’assenza dei computer. Decorsi, lettere di dimissione, sollecitazioni di esami specialistici, radiografie, esami di laboratorio… pagine e pagine da riempire esclusivamente a mano. E, di conseguenza, i molti spostamenti necessari per inoltrare e ritirare questi documenti che comporta una dilatazione enorme dei tempi di lavoro.
Ad una cosa ho forse fatto fatica ad abituarmi; suppongo in quanto prevalentemente abituata a lavorare con pazienti adulti; ossia all’avere a che fare con tanti bambini allo stesso tempo, tutti con patologie tanto importanti. Bambini di tutte le età, dai pochi mesi di vita fino all’adolescenza.
Erano giornate lunghe ed intense. La quotidianità nei paesi all’equatore come il Nicaragua è scandita dalla luce del sole. La mia sveglia suonava alle 4:45, il tempo necessario per mangiare un gallo pinto e poter raggiungere l’ospedale senza troppo stress. La routine nei reparti di ematologia e oncologia, dove durante questi 3 mesi ho lavorato in qualità di medico assistente, era abbastanza regolare, si iniziava con le visite ai pazienti ricoverati, si passava poi ai procedimenti in sala operatoria ed infine all’ambulatorio. Quest’ultimo tutte le mattine brulicava di decine e decine di bambini provenienti da ogni angolo del paese accompagnati dai loro famigliari (per alcuni si tratta di una vera e propria spedizione). Le lunghe attese erano spesso rallegrate da simpatici intrattenitori mascherati.
Sono le 17:30 di un venerdì, il sole già sta tramontando. Dopo una stancante giornata, attraverso il parcheggio dirigendomi verso la cancellata principale dell’ospedale diligentemente custodita da due guardie in uniforme. “Adios Martina!”… è la voce timida di una bimba che sta cenando con la sua mamma al Comedor[6] accanto a La Mascota, “Adios Mixi!!” le rispondo io riconoscendola da lontano. Lei mi saluta con la mano e cammina verso di me. Mi commuovo!
Mixi ha due anni e appena sta imparando a parlare. Affetta da una leucemia linfoblastica acuta, il giorno stesso era stata dimessa dal reparto di ematologia dove nel corso della settimana aveva ricevuto il suo secondo ciclo di chemioterapia di consolidazione con Metotrexato alto dosato. Per due settimane potrà riposare e soggiornare nell’ostello che ospita quei pazienti che vivono a una distanza troppo grande per permettersi di rientrare a casa. Soprattutto nelle fasi critiche della chemioterapia l’insorgenza di complicazioni è elevata e rimanere nei pressi dell’ospedale è di vitale importanza. Mixi è un esempio dei tanti, tantissimi bambini e giovani adulti che ho conosciuto. Ognuno con le proprie caratteristiche: chi più timido, chi più chiacchierone, chi coraggioso e chi fifone (lloron[7] come dicono loro). Tutti con una grande forza e un coraggio che quotidianamente mi lasciavano a bocca aperta. Come grande è pure la forza dei loro genitori. Mamme e Papà che per accompagnare i loro figli in questo impegnativo cammino sacrificano settimane, mesi, fino ad anni, che potrebbero dedicare al loro lavoro e agli altri, spesso numerosi, figli.
Il momento della giornata che preferivo era quello in cui con pazienza passavo di camera in camera misurando i parametri vitali di ogni bambino (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, saturazione e temperatura per intenderci). Momento durante il quale mi prendevo il tempo per parlare, scherzare e soprattutto ascoltare. La maggior parte dei genitori era molto aperta a condividere la propria storia, i dubbi, le paure. Spesso si sfociava in discussioni interessanti e animate.
José ha 14 anni, da alcune settimane, mi racconta la madre, manifestava picchi febbrili accompagnati inizialmente da sintomi influenzali e una stanchezza anomala. Così, dopo i dovuti accertamenti, dal centro di salute del suo pueblo[8] è stato riferito a La Mascota con il sospetto di Leucemia acuta. A Managua ci è venuto con la madre, lasciando a casa 4 fratelli e il papà. La famiglia vive al nord, a 6 ore di distanza, 3 delle quali su strada in terra battuta, spesso e volentieri da percorrere a piedi o a cavallo. Dal momento che la diagnosi è conosciuta, José deve intraprendere il lungo cammino della chemioterapia, che per la LLA (leucemia linfoblastica acuta) dura 2 anni. Le prime 6-8 settimane non potrà rientrare a casa e nei momenti di “libera uscita” potrà rimanere nell’ostello già citato. Il padre è stato informato della situazione per telefono (un cellulare con i tasti che da noi rientra nella categoria antiquariato) ma di venire fino alla capitale non se la sente. A bloccarlo, oltre al lavoro nei campi, la paura nei confronti di una città che non conosce.
Oggi come oggi, grazie al lavoro che AMCA è riuscita a svolgere nei suoi 35 anni di attività, la qualità delle cure per i pazienti affetti da malattie emato-oncologiche all’ospedale de La Mascota, è notevolmente migliorata. Si è passati dalla totale mancanza di terapia a una presa a carico quasi paragonabile a quella che troviamo nei paesi del “primo mondo”. La grande differenza ancora presente è dovuta prevalentemente a fattori sociali e ambientali. Penso soprattutto alle distanze che a volte i bambini devono percorrere per raggiungere la capitale, alla mancanza di risorse finanziarie e alle scarse condizioni igieniche delle zone più rurali che incidono in modo negativo sulla prognosi. Il tasso di abbandono terapeutico, infine, è ancora troppo elevato ma si sta facendo un buon lavoro. Grazie ad AMCA il servizio vanta ad esempio il sostengo di una trabajadora social[9], la quale svolge un compito molto importante nella comunicazione con le famiglie. Per quanto riguarda la struttura ospedaliera, con l’appoggio di AMCA, negli scorsi anni sono stati realizzati molti interventi che hanno contribuito ad un aumento della qualità delle cure. In primis la costruzione del laboratorio di microbiologia che permette oggi di realizzare analisi batteriologiche per poter dirigere in modo specifico le terapie antibiotiche nei casi di infezioni. E’ stato poi portato a termine il nuovo laboratorio di ematologia dove quotidianamente vengono realizzate decine e decine di analisi sia per i bambini ricoverati, sia per quelli che necessitano di cure ambulatoriali. Lo scorso anno è stata messa in funzione un’area dedicata alla preparazione dei chemioterapici con un sistema di riciclo dell’aria che permette l’assorbimento dei gas tossici rilasciati da questi farmaci. I miglioramenti non sono perciò unicamente nella qualità delle cure, ma anche nella condizione di lavoro del personale. Attualmente, come già si scriveva nel correo dello scorso mese di ottobre, vi è un progetto di modernizzazione dello stabile ospedaliero che prevede l’allestimento di camere di isolamento e che verrà, fondi permettendo, messo in opera nei prossimi anni. Una misura estremamente importante che dovrebbe permettere di abbassare il tasso di mortalità dovuto al rischio di contrarre infezioni nosocomiali.
Parlando di questo mi ricordo Angely, una piccola paziente affetta da LLA che stava rispondendo molto bene alla prima chemioterapia di Induzione, portata via da una sindrome di distress respiratoria acuta per un banale RSV[10]. Oppure Hamilton, 6 anni, LLA, un rischio intermedio,…la sua fatalità è stata un’infezione polmonare fungina, chissà dovuta a quella macchia di muffa nel soffitto della sua camera.
A causa della situazione di allarme sanitario mondiale ho dovuto a malincuore interrompere il mio soggiorno con ben due mesi di anticipo. Nonostante ciò lascio Managua soddisfatta ed arricchita da questa magnifica esperienza. Grazie al Nicaragua, ai suoi sapori, colori, tramonti ma soprattutto alla sua gente… “cuidense…, nos vemos pronto”![11]
[1] angolo della strada
[2] quartiere, solitamente povero
[3] “Non scenda qui signorina, rischia di essere assalita (letteralmente ammazzata)”
[4] “Sto andando a La Mascota, l’ospedale infantile”
[5] allegra
[6] tavola calda, mensa
[7] piagnucolone
[8] villaggio, paese
[9] assistente sociale
[10] Virus respiratorio sinciziale
[11] “Abbiate cura di voi, ci vedremo presto!”