di Gea Gattigo, volontaria AMCA in Nicaragua
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Ho passato più di un mese nella Casa Materna di Quilalí e posso considerarlo, oltre ad un periodo di volontariato, una vera e propria esperienza di vita. Ricordo che il giorno della partenza da Managua ero spaventata; mi spaventava il viaggio in bus lungo più di 7 ore e il non sapere cosa avrei trovato in quel paesino al Nord del Nicaragua.
Sono stata accolta da Doña Odilia, la responsabile della Casa Materna nonché una persona squisita, che mi ha fatta sentire fin da subito a casa mia. Al mio arrivo nella casa alloggiavano una quindicina di ragazze, ma i posti letto potevano ospitarne fino a 30. La struttura accoglie ragazze incinte di ogni età che hanno bisogno di sorveglianza medico-infermieristica durante la gravidanza o dopo il parto (naturale o cesareo). Ricordo che i primi giorni mi meravigliavo ogni volta che chiedevo l’età alle ragazze, la più giovane aveva appena compiuto i 14 anni e le mie coetanee erano incinte del terzo o quarto figlio. Al contrario, vedevo il loro stupore quando rispondevo che io, a quasi trent’anni, ancora non avevo figli.
I compiti infermieristici durante la giornata erano la rilevazione dei parametri vitali, i controlli ostetrici, medicazione delle ferite chirurgiche dei cesarei e le chiacchierate di sensibilizzazione o “charlas”, come le chiamavano loro, per istruire le ragazze su tematiche come: comportamenti da adottare in gravidanza e segnali di pericolo di quest’ultima, metodi di contraccezione dopo il parto, cura del neonato, fasi del puerperio…
Yaniris, la fantastica infermiera con cui ho lavorato, rispondeva sempre a tutte le mie domande e mi raccontava spesso di storie e aneddoti della cultura nicaraguense legate alla gravidanza o alla vita di coppia. Alcune mi sembravano talmente assurde da non sembrare reali: ragazze che partorivano a casa propria da sole o aiutate dalla madre, ragazze che rifiutavano l’utilizzo dei metodi contraccettivi o della sterilizzazione perché vi è la credenza, da parte del marito, che la propria donna abbia poi rapporti con altri uomini, o sensibilizzare le madri a non utilizzare piante medicinali sui neonati quando questi sono malati poiché alcune potrebbero essere tossiche.
La mia camera era all’interno della Casa Materna, vivevo quindi a stretto contatto con le ragazze che vi alloggiavano. Percepivo dai loro sguardi che erano curiose di capire cosa ci facessi lì ma molte di loro erano troppo timide per chiedermelo. Faticavo ogni tanto a capirle quando parlavano perché al nord si parla il Miskito (una lingua indigena) ma sempre riuscivamo a trovare un mezzo di comunicazione alternativo, primo tra questi il sorriso. Col passare del tempo, quando Yaniris non c’era, capitava che mi svegliassero di notte per chiamare l’ambulanza se una di loro cominciava ad avere contrazioni uterine o qualsiasi altro problema. Senz’altro si trattava di una grande responsabilità ma ne ero entusiasta perché mi avevano presa come punto di riferimento.
Vivendo con loro ho imparato a vivere come loro; lavavo i vestiti a mano, mangiavo il loro cibo molto semplice (due pasti su tre erano arroz y frijoles) e facevo la doccia con i secchi d’acqua fredda. È capitato inoltre diverse volte di restare senza corrente elettrica e senz’acqua per più di 20 ore ed è in quei momenti che ho capito quanto “acqua e luce” sono importanti e quanto poco ce ne rendiamo conto.
Per concludere, posso dire di aver vissuto la parte rurale del Nicaragua e di aver avuto l’opportunità di fare una bellissima esperienza di vita, nonché una grande sfida personale che consiglierei a tutte le future volontarie!! Non smetterò mai di ringraziare l’associazione AMCA per tutto questo.